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Save the Last Dance
La trama , la recensione e la galleria di foto

La recensione

di Mario Sesti
Ci sono dei posti in cui anche il cinema mostra i suoi limiti: qualcuno ricorda qualche grande sequenza girata in discoteca? Fatta eccezione per il famoso "paso doble" di John Travolta nella Febbre del sabato sera e forse per un film molto più recente che utilizza le discoteche per impostare lunghe scene dialogate alla Rohmer come Last Days of Disco di Whit Stillman, non è facile trovare dei film che ne facciano un uso inventivo. Persino Fellini, nella discoteca ciclopica e postatomica della Voce della luna, non riuscì a raggiungere le vette delle sue più illustri scene madri.
Invece Save the Last Dance, successo della scorsa stagione in America, perlopiù liquidato dai suoi stessi autori come uno scoperto tentativo di emulare il favore popolare di film come Dirty Dancing e La febbre del sabato sera, ha almeno una sequenza in discoteca che vale l'attenzione che i nostri occhi gli prestano. Siamo a Chicago, e la protagonista, che sognava di diventare una ballerina classica prima che la madre morisse per un incidente proprio durante l'audizione che la ragazza affronta per entrare in una prestigiosa scuola di ballo, si ritrova improvvisamente affidata al padre, in un ghetto nero, pieno di adolescenti spiritosi, rabbiosi, svantaggiati per classe e razza, virtuosi del ballo hip hop. La prima volta in discoteca, il regista Thomas Carter, con molta televisione e un paio di filmetti commerciali alle spalle, ci mostra che in discoteca si può anche parlare, sedersi, ordinare qualcosa al bar, stare sotto la luce e non solo nel buio, insomma si può vivere e non solo stordirsi sulla pista (aspirazione legittima e salutare come tantissime altre, peraltro). I film italiani degli ultimi vent'anni, ad esempio, sono pieni di scene in cui la steadycam sprofonda in antri fumosi e mefitici dove adolescenti lobotomizzati si agitano sbavando sotto cubiste provocatorie e aggressive, Save the Last Dance che - lo sappiamo ancor prima che lo faccia - ci racconta come una giovane ballerina classica si invaghisca dell'arte sinuosa, seducente, curvilinea e acrobatica del ballo hip hop (vedi le clip del film) ha il privilegio di mostrarci senza disprezzo o presunzione sociologica cosa succede in una discoteca e, soprattutto, perché la gente ci va. Non è poco, non è affatto poco, soprattutto nel cinema americano di oggi, dove è difficile trovare anche un uso accorto e misurato di musica avvolgente (K-CI, Lucy Pearl, Donnel Jones, e Fredro Starr - che interpreta anche il personaggio di Malakai), che il film non spara mai sulle immagini giusto per tenerle un po' su come se fosse cocaina e come fanno spessissimo i film di oggi. Ancor più, il film osa, nel raccontare la storia di una bianca, dall'aspetto anglosassone e borghese, che si ritrova in un ambiente dominato da gruppi etnici completamente diversi: le infinite, invisibili apartheid, dell'America di oggi, dove ogni etnia occupa un territorio e lo difende espellendo chiunque non vi appartenga, fa di questa innocente sceneggiatura, una piccola provocazione intellettuale. Julia Stiles, dopo essere apparsa da bambina nella parte della figlia di Harrison Ford in L'ombra del diavolo, non è un'attrice qualsiasi, come ha dimostrato nell'Amleto di Michael Almereyda e in State & Main di Mamet, ma più che la sobrietà con la quale affronta la favola del suo personaggio (qualcuno dubita che riuscirà alla fine ad affrontare di nuovo l'audizione, a superare il complesso di colpa per la morte della madre e a stupire freddi accademici con l'introduzione di elementi hip hop nel suo saggio di danza?), persuade lo spettatore della sua plausibilità con le sue normalissime imperfezioni (gambe larghe, fianchi un po' bassi). Il coprotagonista, l'attore di colore Sean Patrick Thomas, è il secondo, dopo il protagonista di Scoprendo Forrester, a proporre in questa stagione sui nostri schermi un giovane nero colto, atletico e ben attrezzato per farsi avanti contro ogni pregiudizio - una delle migliori notizie che il cinema potrebbe mai portare. Insomma, non ci stupiremmo se tra vent'anni qualche studiosa femminista dei "cultural studies" riscoprisse in questo prodotto di consumo degli schemi di autentico anticonformismo sociale e un approccio non convenzionale, sotto, dentro, dissolti nella superficie di pura godibilità e finzione del suo mainstream hollywoodiano.

 
 

 

 

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