Intervista
a Mario Porcile
di Simona Griggio
da "Il Secolo XIX"
del 6 gennaio 2003
Rudolf Nureyev
nasce in viaggio, su un treno
della Transiberiana, nella regione
del lago Baikal, il 17 marzo
del 1938. Una ventina d'anni
dopo, ormai solista del corpo
di ballo del Teatro Kirov di
Leningrado, arriva in tournée
a Parigi e chiede asilo politico.
E' il 1961
e per il grande astro nascente
della danza classica ha inizio
una folgorante carriera che
lo porterà ad esibirsi
in tutti i più importanti
teatri e compagnie del mondo,
fino a pochi anni prima di morire,
il 6 gennaio del 1993. Affiancato
da partners del calibro di Margot
Fonteyn, Ivette Chauvirè
e Carla Fracci, Nureyev raggiunge
una perfezione tecnico-espressiva
inimmaginabile per un essere
umano. In Italia arriva subito
dopo il suo ingresso in Europa,
chiamato a Genova dal maestro
Mario Porcile.
Maestro
Porcile, come nasce il fenomeno
Nureyev?
«Bisogna
inquadrare il fenomeno Nureyev
nel contesto politico in cui
è avvenuta la sua formazione.
In Russia in quegli anni i ballerini
del Kirov erano sottoposti ad
una disciplina spaventosa. Basti
pensare che nel refettorio del
teatro, appena la direttrice
della scuola posava la forchetta,
tutti smettevano di mangiare.
Quando arrivavano in tournée
in Europa erano attorniati da
poliziotti e non potevano parlare
con nessuno. Nureyev, oltre
che un talento eccezionale,
possedeva un'ambizione e un
desiderio di libertà
sfrenati».
Come
fu organizzata la fuga in Europa?
«Fu
organizzata dal marchese De
Cuevas, noto impresario di allora,
con l'aiuto di organizzatori
franco-russi. Finita la tournée
del Kirov in Francia, Nureyev
chiese asilo politico e l'ottenne.
Ma non ottenne nazionalità.
Lo chiamai al Teatro Carlo Felice
pochi giorni dopo, per interpretare
La Bella Addormentata, dove
ballò di fronte a una
platea delirante. Subito dopo
partimmo per una tournée
di tre mesi».
Come
visse questo passaggio, sapendo
che non sarebbe mai più
potuto rientrare in patria?
«Era
molto spaventato e ad ogni richiesta
di passaporto temeva per la
sua libertà. Proveniva
da un mondo dominato dal controllo
politico. Ricordo che quando
mi recai a Leningrado per la
prima volta andammo in un night
club dove anche le spogliarelliste
avevano la falce e il martello
stampati sugli indumenti.
Era vissuto
in un paese dove tutti erano
trattati allo stesso modo e
questo era un ostacolo alla
sua ambizione individuale. In
seguito, al suo timore iniziale
di artista apolide si sostituì
un desiderio incontrollato di
ottenere tutto ciò che
non aveva avuto.
Affascinato
dal lusso e dalla vita mondana
cominciò a guadagnare
e a spendere: pellicce, cose
preziose, oggetti d'arte. Aveva
un appartamento a Montecarlo,
a Londra, a Parigi, a New York.
Comprò l'isola dei Galli
davanti a Positano».
Aveva
nostalgia della Russia?
«Sempre.
Quando seppe che il Kirov sarebbe
venuto in Italia per uno spettacolo
mi chiese di combinare un incontro
furtivo. Allora lo portai a
Milano dove la compagnia era
in visita alla Scala. Dal pullman
i compagni lo videro ma fecero
finta di niente, non avevano
il permesso di parlargli perché
era un fuggiasco. Dovetti coprirlo
per permettergli di scambiare
appena un saluto».
In che
cosa si può riassumere
il suo talento?
«Era
un istrione. Aveva la capacità
di trasformarsi in un essere
straordinario ogni volta che
entrava in scena. Aveva un corpo
felino, bellissimo. Il suo pezzo
forte era l'assolo del Corsaro,
dove sembrava quasi una tigre.
Rivoluzionò
il ruolo maschile dando espressività
ad ogni respiro, ad ogni passo.
Anche una promenade o un inchino
eseguiti da lui erano grandiosi.
Manovrava le sue espressioni
semplicemente muovendo le narici».
E fuori
scena?
«Era
un uomo irrequieto, ribelle.
Amava la vita e sapeva goderne.
Aveva pochi amici ma molti adoratori.
Dava la perfezione ma pretendeva
altrettanto. Sicuro di essere
il migliore. La sua fu una vita
di trionfi ma anche di contrasti.
Una volta tirò uno schiaffo
a una ballerina. Un'altra volta
dovetti escluderlo dallo spettacolo
perché pretendeva che
cambiassi l'ordine dei balletti
per assecondare un suo appuntamento.
Rifiutai. Così alle prove
si presentò in scena
leggendo la posta e ballando
con una tale indifferenza da
far piangere la partner. Cercammo
di farlo ragionare, ma per reazione
buttò fuori dalla finestra
del camerino le sue valigie».
Fu lei
a unire la celebre coppia Nureyev-Fonteyn?
«Ci
misi un anno a convincerli.
Il fenomeno Nureyev era appena
scoppiato e Margot Fonteyn,
più vecchia di una ventina
d'anni, era già un'étoile
di livello mondiale.
Entrambi
temevano che il successo dell'altro
avrebbe offuscato il proprio.
Ma capitò il contrario.
Ballarono insieme per la prima
volta a Nervi nel Lago dei Cigni,
il balletto più adatto
ad esaltarne la reciproca perfezione:
protagonisti e antagonisti al
tempo stesso. Margot lo invitò
al Royal Ballet introducendolo
anche nell'alta società
londinese. Si vociferava che
fosse segretamente innamorata
di lui. Un sodalizio durato
anni».
Quando
lo incontrò per l'ultima
volta?
«A
Milano nell'81, durante l'assegnazione
del premio Porselli. Mi fece
un grande effetto vederlo distrutto
dalla malattia: un uomo che
sembrava eterno e non pensava
mai al futuro. Il suo desiderio
era di morire sul palcoscenico.
Ballando».
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