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  home ----> arti ----> letteratura ----> romeo e giulietta

ROMEO E GIULIETTA
William Shakespeare
Primo atto

SCENA I - Verona, una piazza davanti alla casa dei Capuleti

Entrano SANSONE e GREGORIO con spada e scudo

SANSONE - E che! Siam tipi da portar carbone,
noialtri?

GREGORIO - Ah, certo no!
Noi paghiamo a misura di carbone!

SANSONE - E se ci salta poi la mosca al naso
tiriamo fuori questa.

(Indica la spada al suo fianco)

GREGORIO - Che scoperta!
È come se dicessi: "Finché vivo
tiro fuori il mio collo dal collare"

SANSONE - Io, se mi smuovo, le scarico brutte.

GREGORIO - Sì, soltanto che a smuoverti e a menare
ci metti qualche tempo.

SANSONE - Basta ch'io veda un cane di Montecchi.
Mi basta quello per farmi scattare.

GREGORIO - Già, ma scattare è muoversi;
rimanere ben saldi sulle gambe,
quello è coraggio. Se tu scatti, scappi.

SANSONE - No, so scattare pure stando fermo:
mi basta d'incontrarmi con un cane
di quella gente là. Fa' che l'incontro,
sia maschio o femmina, io prendo il muro.

GREGORIO - Con questo fai vedere che sei stroppio;
perché al muro ci va sempre il più debole.

SANSONE - Questo è vero; è per questo che le donne
che sono i vasi più deboli e fragili,
vanno sempre appoggiate spalle al muro.
Perciò io sai che faccio?
Caccio dal muro i servi dei Montecchi
e ci appoggio le serve.

GREGORIO - Qui però
ci sarà da vedersela fra uomini,
padroni e servi.

SANSONE - Per me fa lo stesso.
Mi mostrerò tiranno:
combattuto che avrò coi loro uomini,
sarò gentile con le loro donne...
Taglio loro la testa.

GREGORIO - Ma che dici!
Vuoi tagliare la testa alle ragazze?

SANSONE - La testa... Insomma far loro la festa.
Prendila come vuoi

GREGORIO - Non sono io,
sono esse che se la devon prendere
nel senso che vuoi tu.

SANSONE - E puoi star certo
che fintanto che mi sto ritto in piedi,
quelle mi sentiranno. Lo san tutte
che bel tocco di carne è il sottoscritto.

GREGORIO - E buon per te che non sei nato pesce,
perché saresti nato stoccafisso...
Piuttosto tira fuori quell'arnese,
che arriva gente di Casa Montecchi.

Entrano ABRAMO e BALDASSARRE

SANSONE - Io la mia lama l'ho bell'e snudata.
Attacca tu per primo. Io ti spalleggio.

GREGORIO - "Spalleggio"... che vuoi dire?
Mi rivolgi le spalle e te ne scappi?

SANSONE - No, non temere.

GREGORIO - Eh, di te ho paura.

SANSONE - Restiamo dalla parte della legge,
lascia che siano loro a cominciare.

GREGORIO - Io gli passo davanti,
e gli faccio gli occhiacci del dispetto.
E la prendano pure come vogliono.

SANSONE - La prenderanno come avranno il fegato.
Io gli faccio gli occhiacci,
mi mordo il pollice in faccia a loro,
e lo faccio schioccare, ch'è un insulto.
E se la prendon male, tanto meglio.

(Fa il gesto di mordersi il pollice)

ABRAMO - Per noi ti mordi il pollice, compare?

SANSONE - Io sì, mi mordo il pollice.

ABRAMO - Ti sto chiedendo s'è verso di noi
che te lo mordi. Rispondimi a tono.

SANSONE - (A Gregorio, a parte)
Se rispondo di sì, sto nella legge?

GREGORIO - (A Sansone, a parte)
No.

SANSONE - No, compare. Se mi mordo il pollice,
non è per voi. Però mi mordo il pollice.
Ma non vorrete mica attaccar briga?

ABRAMO - Briga, noi? No.

SANSONE - Ma se n'aveste l'uzzolo,
io sono a vostra piena discrezione.
Il mio padrone vale quanto il vostro.

ABRAMO - Ma non di più.

SANSONE - D'accordo.

GREGORIO - (A Sansone, a parte)
Di' "di più",
sta venendo un parente del padrone.

SANSONE - Vale di più, sissignore!

ABRAMO - Tu menti!

SANSONE - Fuori le spade, se siete degli uomini!
Gregorio, pronto con il tuo fendente.

(Si battono)

Entra BENVOLIO

BENVOLIO - Fermi, insensati, fermi! Giù le spade!
Idioti! Non sapete quel che fate!

(S'intromette, e con la propria spada fa abbassare a terra quelle dei contendenti)

Entra TEBALDO e s'accosta a Benvolio, sussurrando

TEBALDO - Sei bravo, eh?, Benvolio, a trar la spada
in mezzo a questi timidi cerbiatti!
Vòltati, e guarda in faccia la tua morte.

BENVOLIO - Sto solo a metter pace tra costoro.
Perciò rinfodera, o almeno adoprala
a darmi mano a rappacificarli.

TEBALDO - Che! Tu parli di pace spada in pugno?
Questa parola "pace" io la odio
come l'inferno, i tuoi Montecchi e te!
A te, vigliacco, in guardia! Fatti sotto!

Si battono. Entrano parecchie persone delle due famiglie e si accende una zuffa generale; poi sopraggiungono dei cittadini armati di mazze

CITTADINI - Mazze ferrate! Picche! Partigiane!
Datevi addosso, ammazzatevi tutti!
Capuleti, Montecchi, morte a tutti!

Entra il vecchio CAPULETI, uscendo di casa,
in vestaglia, con MONNA CAPULETI

CAPULETI - Che diavolo di pandemonio è questo?
Qua il mio spadone!

MONNA CAPULETI - Sì, la tua stampella!
Una stampella dategli, piuttosto!
Perché chiedi una spada, che vuoi farci?

CAPULETI - Il mio spadone! C'è il Montecchi, il vecchio,
che viene a provocarmi, spada in pugno!

Entrano il vecchio MONTECCHI con MONNA MONTECCHI

MONTECCHI - Vile d'un Capuleti!

(Fa per slanciarsi, spada in pugno, contro il Capuleti, ma la moglie lo trattiene)
... E non tenermi!
Lasciami andare!

MONNA MONTECCHI - Non farai un passo,
per andarti a scontrar con un nemico.

Entra il PRINCIPE SCALIGERO col suo seguito

PRINCIPE - Sudditi ribellanti,
nemici della pace,
profanatori delle vostre spade
con sangue cittadino!... Non m'ascoltano!...
Oh, dico a voi, non uomini, ma bestie,
che spegnete la perniciosa rabbia
che v'infiamma nelle vermiglie polle
sgorganti dalle vostre vene! Fermi!
Da quelle vostre mani insanguinate,
gettate a terra, a pena di tortura,
i maltemprati acciai,
ed ascoltate la vostra condanna
dalle labbra dello sdegnato Principe.
Tu, vecchio Capuleti, e tu, Montecchi,
avete già tre volte disturbato
la bella quiete delle nostre strade
con zuffe sorte da parole al vento,
e costretto anche i vecchi cittadini
di Verona a gettar l'austere vesti
per tornare a impugnar le vecchie picche,
ormai coperte di ruggine in pace,
per separare il vostro antico odio.

Se disturbate ancor le nostre strade,
saran le vostre vite, ve lo giuro,
a pagar la rottura della pace.
Per questa volta, tutti gli altri a casa.
Tu, Capuleti, vieni via con me,
e tu, Montecchi, questo pomeriggio
tròvati nella vecchia Villafranca
dov'è la nostra Corte di Giustizia,
per conoscer le loro decisioni
sul seguito da dare a questo caso.
Ora via tutti: a pena capitale,
ordino a tutti di sgombrare il campo!

(Escono il Principe col seguito, Capuleti,
Monna Capuleti, Tebaldo e gli altri)

Restano il vecchio MONTECCHI, MONNA MONTECCHI e BENVOLIO

MONTECCHI - Di' un po', nipote, chi ha rinfocolato
quest'annosa querela?
Tu eri qui quando hanno cominciato?

BENVOLIO - Quand'io sono arrivato era già in corso
tra i loro e i vostri una dannata rissa.
Per cercare di separarli ho tratto
la mia spada, ma in quello stesso istante
è sopraggiunto irruente Tebaldo,
spada in pugno, e fiatandomi agli orecchi
baldanzosi propositi di sfida,
comincia a sventagliarsela sul capo
fendendo l'aria che, non vulnerabile,
fischiava, come a beffarsi di lui.
Mentre ci scambiavamo colpo a colpo,
e la gente accorreva da ogni parte,
e la zuffa cresceva e s'ingrossava,
è giunto il Principe, che ci ha divisi.

MONNA MONTECCHI - Romeo dov'è? L'hai visto stamattina?
Sono proprio contenta
che non si sia trovato in questa rissa.

BENVOLIO - Signora, vi dirò: questa stamattina,
poco prima che il sole s'affacciasse
all'indorata finestra d'oriente,
un certo turbamento dello spirito
m'aveva spinto a uscir fuori di casa;

e proprio là, sotto quel bosco d'aceri
che sorge ad ovest della città,
m'è occorso di vedere vostro figlio
che vagava anche lui sì di buon'ora.
Gli sono andato incontro, ma lui, subito,
come s'è accorto della mia presenza,
è scomparso nel fondo del boschetto.
Io, misurando dalla sua tristezza
la mia che anch'essa cercava sollievo
dove meno rischiasse d'esser vista
essendo già di peso anche a me stesso,
ho proseguito nel mio stato d'animo,
senza curarmi di seguire il suo,
volentieri schivando d'incontrare
chi volentieri da me s'involava.

MONNA MONTECCHI - L'han già notato là molte mattine
a far più rorida, con le sue lagrime,
la recente rugiada mattutina,
e ad addensar le nuvole del cielo
coll'umor dei profondi suoi sospiri.
Poi, come il primo rallegrante raggio
dall'estreme regioni dell'oriente
prende a scostare dal letto d'Aurora
le fumose cortine della notte,
quell'intristito povero mio figlio,
furtivo, quasi schivo della luce,
corre a casa, si rimprigiona in camera,
e lì, sbarrate tutte le finestre,
ed escludendo dalla sua persona
la benefica luce del mattino,
si riproduce, ad arte, un'altra notte.
Questo umor tetro gli sarà fatale
se non l'aiuti qualche buon consiglio
a rimuoverne la segreta causa.

BENVOLIO - E quella causa voi, nobile zio,
la conoscete?

MONTECCHI - No, non la conosco,
né ho modo di conoscerla da lui.

BENVOLIO - Avete già provato a interrogarlo?

MONTECCHI - Ci ho provato, e com'io molti altri amici.
Ma il solo confidente del suo male,
è lui stesso... non so quanto sincero;

e tanto chiuso in sé, tanto segreto,
tanto profondamente impenetrabile,
tanto restio a lasciarsi sondare,
da somigliare al bocciolo d'un fiore
che, morsicato da un maligno verme,
esita a schiudere i soavi petali
all'alitar dell'aria e offrire al sole
l'olezzante fiorita sua vaghezza.
Potessimo saper da dove viene
il suo male, faremmo volentieri
quanto necessitasse per curarlo.

Entra, dal fondo, ROMEO

BENVOLIO - Ma eccolo. Mettetevi in disparte:
mi deve dir lui stesso, di sua bocca,
che cos'è che l'ambascia,
o deve dirmi mille volte "No"!
Vi prego, allontanatevi.

MONTECCHI - Spero che tu sia tanto fortunato
da ottenere a quattr'occhi, qui, da lui,
una schietta apertura. Andiamo, cara.

(Escono il Montecchi e Monna Montecchi)

BENVOLIO - (A Romeo che intanto s'è avvicinato)
Buon mattino, cugino.

ROMEO - Così giovane è ancora questo giorno?

BENVOLIO - Sono appena le nove.

ROMEO - Ah, l'ore tristi
come son lunghe all'uomo!... Era mio padre
quello che se n'è andato così in fretta?

BENVOLIO - Tuo padre, sì... Ma quale interna pena
fa tanto lunghe l'ore di Romeo?

ROMEO - La pena di non posseder per sé
la cosa che gliele farebbe brevi.

BENVOLIO - Innamorato?...

ROMEO - Fuori...

BENVOLIO - Dall'amore?

ROMEO - No, dalle grazie di colei che amo.

BENVOLIO - Ah, perché Amore, sì bello alla vista,
si deve dimostrar così tiranno
e crudele alla prova!

ROMEO - Ahimè, è bendato,
Amore, e deve scernere senz'occhi
le vie che vanno dritte alle sue voglie...
Beh, dove si va a pranzo oggi?...
(Vedendo sangue in terra)
Ohilà!
Che zuffa ci sarà mai stata qui?
Però è inutile che me lo dici,
ho tutto udito. C'entra molto l'odio,
in tutto questo, ma ancor più l'amore.
O amor litigioso! Odio amoroso!
O tutto prima creato dal nulla!
O vana serietà! Vanità seria!
O caos informe di splendide forme!
O plumbea piuma! Lucida caligine!
Gelido fuoco! Inferma sanità!
Sonno insonne, che è quel che non è!
Questo è l'amore ch'io mi sento dentro,
senza nulla sentire che sia amore.
Non ridi?

BENVOLIO - No, cugino. Se mai, piango.

ROMEO - E di che, cuor gentile?

BENVOLIO - Del tuo cuore,
così gentile e così pien d'ambascia.

ROMEO - È la crudele legge dell'amore.
Già le pene del mio pesano troppo
sul mio cuore, e tu vuoi ch'esso trabocchi
coll'aggiungervi il peso delle tue:
giacché quest'affettuosa tua premura
altro non fa che aggiunger nuova ambascia
a quella che m'opprime, ch'è già troppa.
L'amore è vaporosa nebbiolina
formata dai sospiri;
se si dissolve, è fuoco che sfavilla
scintillando negli occhi degli amanti;
s'è ostacolato, è un mare alimentato
dalle lacrime degli stessi amanti.
Che altro è più? Una follia segreta,
un'acritudine che mozza il fiato,

una dolcezza che ti tira su.
Addio, cugino.

(Fa per andarsene)

BENVOLIO - Aspetta, t'accompagno.
Mi fai torto a piantarmi così in asso.

ROMEO - Oh, ho smarrito me stesso...
Non son io il Romeo che vedi qui.
Romeo è altrove.

BENVOLIO - Dimmi, seriamente,
chi è quella di cui sei innamorato?

ROMEO - "Seriamente", perché? Devo esser triste
per dirtelo, piangendo?

BENVOLIO - Senza piangere,
ma seriamente, dimmi, chi è che ami?

ROMEO - Puoi domandare ad un malato grave
di fare "seriamente" testamento?
La tua è una domanda posta male,
per uno che si sente tanto male.
"Seriamente", cugino, amo una donna.

BENVOLIO - Avevo allora ben colto nel segno
nel supporre che sei innamorato.

ROMEO - Infatti. Sei un bravo tiratore.
E la donna che amo è una bellezza.

BENVOLIO - Un bel bersaglio è subito centrato,
caro il mio bel cugino!

ROMEO - Questo, però, non l'hai centrato affatto:
la freccia di Cupido non la tocca!
Ella ha il segno di Diana,
e, ben protetta dentro la corazza
della sua castità, rimane indenne
dalla quadrella del fragile arco
del fanciullo Cupido.
Sfugge all'assedio di frasi d'amore,
schiva l'incontro d'invadenti sguardi,

e non apre il suo grembo manco all'oro
che pur si dice che seduce i santi.
Oh, è ricca di beltà,
povera solo in questo: morta lei,
morirà insieme con la sua bellezza
il magazzino della sua ricchezza.

BENVOLIO - Ha fatto forse voto
di mantenersi casta finché vive?

ROMEO - Credo proprio di sì: ed è un risparmio
che si risolverà in un grande sperpero,
perché beltà che si muoia di fame
per causa della stessa sua astinenza
preclude alla beltà ogni speranza
di riprodursi. Oh, ella è troppo bella
e saggia, troppo saggiamente bella
per meritarsi la beatitudine
gettando me nella disperazione!
S'è votata a non mai innamorarsi,
ed io per causa di questo voto
vivo, ma sono morto;
son vivo sol per dirti che son morto.

BENVOLIO - Dammi retta, non ci pensare più.

ROMEO - Oh, insegnalo tu alla mia mente
come può trattenersi dal pensare!

BENVOLIO - Restituendo libertà ai tuoi occhi;
volgendoli a mirare altre bellezze.

ROMEO - Sarebbe come richiamar di più
in causa quella sua, così squisita.
Quelle nere felici mascherine
che baciano la fronte a belle dame
danno agli sguardi nostri l'illusione
che dietro quella loro nera sagoma
ci celino chissà quali bellezze.
Chi è colpito da cecità improvvisa
non può dimenticar senza dolore
il perduto tesoro della vista.
Mettimi avanti agli occhi una bellezza
quanto tu vuoi perfetta:
agli occhi miei sarà soltanto un foglio
su cui leggerò il nome di colei
ch'è ancor più bella. No, cugino, no,
tu non sarai capace d'insegnarmi
a non pensar più a lei. Addio, Benvolio.

BENVOLIO - Eppure io t'insegnerò quest'arte,
o morirò con la coscienza in debito.

(Escono)

SCENA II - Verona, una via

Entra il vecchio CAPULETI, PARIDE e un SERVO

CAPULETI - Il Montecchi ha sul capo, come me,
la minaccia dall'alto d'un castigo;
anziani come siamo, tra noi due
non dovrebbe perciò esser difficile
trovare il modo di vivere in pace.

PARIDE - D'un'onorevole reputazione
siete entrambi. E davvero è gran peccato
che abbiate seguitato tanto a lungo
a vivere in codesta inimicizia...
Ma, signore, di grazia,
quale risposta date alla mia offerta?

CAPULETI - Non posso che ripetervi il già detto:
la mia figliola è ancora nuova al mondo,
non ha compiuti i suoi quattordici anni;
lasciamo ancora che appassisca in lei
il rigoglio di altre due estati,
prima che la si possa dir matura
per essere una sposa.

PARIDE - Fanciulle ancor più giovani di lei
son diventate già madri felici.

CAPULETI - Quelle che vanno spose tanto presto
sono votate a perdere anche presto
il frescor giovanile. Caro Paride,
la terra s'è inghiottita fino ad oggi
tutte le mie speranze,
l'ultima è lei... Intanto corteggiatela,
e cercate di conquistarne il cuore.
Il solo mio volere
non è che parte del suo gradimento:
s'ella v'è consenziente, il mio consenso
e la voce che molto cordialmente
l'accorderà si troveranno insieme
nel raggio della sua spontanea scelta.
Questa sera terrò qui in casa mia,
com'è vetusta usanza di famiglia,
un festino; e ad esso ho convitato

un certo numero di buoni amici;
ci sarete anche voi, gradito ospite.
Ebbene, sotto il mio modesto tetto
questa notte potrete contemplare
stelle che solcano le vie terrene
illuminando il buio della notte.
E potrete godere in casa mia
in mezzo a freschi bocciòli di femmine
il piacere che è dato di gustare
a lieta giovinezza, quando Aprile,
vestito già della sua gaia veste,
è alle calcagna degli ultimi sprazzi
del zoppicante e freddoloso inverno.
Potrete intrattenervi con ciascuna,
tutte osservarle, e far la vostra scelta
su quella che, secondo il vostro gusto,
per merito sovrasti tutte l'altre.
Riguardandole meglio tutte quante,
la mia può star nel novero a far numero,
ma nel merito è priva d'ogni pregio.
Su, venite con me.

(Al Servo)
E tu, compare,
mettiti in giro, senza perder tempo,
per le belle contrade di Verona
e vammi alla ricerca della gente
il cui nome è segnato in questa lista;
farai sapere a ciascuno di loro
che la mia casa ed il mio benvenuto
attendono la loro compiacenza.

(Escono il vecchio Capuleti e Paride)

SERVO Andare a ricercar tutta la gente
il cui nome è segnato in questa lista...
Sta scritto, in verità, che il calzolaio
deve sapere trafficar col metro,
il sarto con la forma delle scarpe,
il pescatore con tinte e pennelli,
il pittore con l'amo; e così io:
ecco che mi si manda a ricercare
gente il cui nome è scritto in questo foglio,
quando non so nemmeno quali nomi
v'ha scritto chi l'ha scritto,

per via che non ho mai imparato a leggere.
Mi ci vuole qualcuno ch'è istruito.
Eccolo, infatti, pare, ed a buon punto.

Entrano BENVOLIO e ROMEO

BENVOLIO - Fuoco consuma fuoco, caro mio.
Il dolore degli altri scema il tuo.
Se a ruotare in un senso
ti viene il capogiro, va all'inverso
sempre girando, e vedrai che ti passa.
Disperato dolor trova sua cura
nell'altrui pena. Date un nuovo tossico
all'occhio infetto, ed il tossico vecchio
cesserà dal produrre altra infezione.

ROMEO - Eh, già, pure la foglia di piantaggine
è un buon rimedio.

BENVOLIO - Rimedio a che cosa?

ROMEO - Al tuo stinco, dovessi mai spezzartelo.

BENVOLIO - Ma che dici, sei matto?

ROMEO - Matto, no,
ma come un matto incatenato, sì,
stretto, in prigione, privato del cibo,
frustrato, tormentato...

(Vede il Servo dei Capuleti)
Olà, buon uomo,
buona giornata a te.

SERVO - E buona pure a voi la faccia Iddio.
Di grazia, signor mio, sapete leggere?

ROMEO - Sì, la mia malasorte
nel grande libro della mia miseria.

SERVO - Magari questo pure senza libro
l'avrete appreso... Ma sapete leggere
tutto quel che vi viene sotto gli occhi?

ROMEO - Sì, certo, se conosco l'alfabeto
e la lingua nei quali è stato scritto.

SERVO - Questo è parlare da persona onesta.
Allora state allegro. Vi saluto.

ROMEO - No, resta, amico, questo lo so leggere.

(Gli prende dalle mani il foglio e legge)
"Signor Martino, con signora e figlie;
"Conte Anselmo e vezzose sue sorelle;
"la bella dama vedova Vitruvio;
"signor Piacenzio e graziose nipoti;
"zio Capuleti con signora e figli;
"la mia bella nipote Rosalina;
"Livia; il signor Valenzio e suo cugino;
"Tebaldo; Lucio e la briosa Elena".
Una bella brigata. E dove vanno?

SERVO - Su.

ROMEO - Dove, su?

SERVO - Di sopra, a casa nostra.

ROMEO - Nella casa di chi?

SERVO - Del mio padrone.

ROMEO - Già, te l'avrei dovuto chieder prima.

SERVO - Senza che lo chiediate, ve lo dico:
il mio padrone è il ricco Capuleti;
e se non siete di casa Montecchi
potete favorire pure voi
a bere un goccio. State allegro, addio.

(Esce)

BENVOLIO - A codesto festino,
che i Capuleti danno tutti gli anni
per un'antica usanza di famiglia,
va a cenare la bella Rosalina,
la tua passione, insieme alle più belle
e le più vagheggiate di Verona.
Andiamoci, e là dentro potrai fare,
con occhio spassionato il paragone
tra l'aspetto di lei e di qualcuna

che io t'indicherò; e ci scommetto
che al paragone il tuo leggiadro cigno
ti sembrerà una povera cornacchia.

ROMEO - Se la pia devozione del mio occhio
dovesse indurmi a proclamare vera
una tal madornale falsità,
che le mie lacrime si faccian fiamme,
e, come eretiche all'autodafé,
brucino queste loro trasparenze
che, tante volte annegate nel pianto,
mai furono capaci di morire!
Una più bella dell'amore mio?...
Sulla terra l'onniveggente sole
da quando questo mondo ebbe principio
non vide donna che le stesse a pari.

BENVOLIO - Eh, tu l'hai sempre vista tanto bella
perché non l'hai mai vista insieme ad altre,
e sopra la bilancia dei tuoi occhi
s'è controbilanciata da se stessa.
Ma nelle tue bilance di cristallo
se metti sopra un piatto la tua donna
e sopra un altro alcun'altra di quelle
che vedrai splendere a questo festino,
colei ch'ora ti sembra la più bella
ti parrà appena degna d'attenzione.

ROMEO - Verrò con te alla festa,
non per vedere queste tue beltà,
ma solo per bearmi a contemplare
il fulgore di quella che so io.

(Escono)

SCENA III - Verona, una stanza in casa Capuleti

Entrano MONNA CAPULETI e la NUTRICE

MONNA CAPULETI - Balia, dov'è mia figlia?
Cercala e dille di venir da me.

NUTRICE - Gliel'ho già detto di venire, diamine!,
quant'è vero, signora, ch'ero vergine
a dodici anni...

(Chiamando)

Ebbene, farfalletta!...
Agnellino!... Ma dove s'è cacciata?
Dio ne guardi! Dov'è questa figliola?
Giulietta, dove sei?

GIULIETTA - (Da dentro)
Che c'è? Chi chiama?

NUTRICE - Tua madre.

GIULIETTA - (Entrando)
Sono qua, signora madre.
Desiderate?

MONNA CAPULETI - Ebbene, ho da parlarti.
Nutrice, lasciaci sole un momento.
Abbiamo da discorrere in segreto.
Anzi, no... resta... Adesso che ci penso,
nutrice, è meglio che tu sia presente.
Tu sai la bella età di questa figlia.

NUTRICE - Come no: ve la posso precisare
senza sbagliare nemmeno di un'ora.

MONNA CAPULETI - È vicina ai quattordici.

NUTRICE - Quattordici,
ci scommetto quattordici miei denti
- anche se, a mio dolore, devo ammettere
che me ne son rimasti solo quattro - ancora non li compie: il primo agosto.
Quanto manca da oggi al primo agosto?

MONNA CAPULETI - Due settimane, o qualcosa di più.

NUTRICE - Sia più sia meno, quando il primo agosto
verrà sul calendario, quella notte
Giulietta compirà quattordici anni.
Susanna mia e lei - conceda Iddio
la pace a tutte l'anime cristiane - erano d'una età. Susanna mia
ora è con Dio (per me era troppo buona),
ma la notte davanti al primo agosto
Giulietta compirà quattordici anni.
Me lo ricordo bene, per la Vergine!
Sono undici anni dal gran terremoto;

e fu quel giorno che la divezzai:
me lo ricordo come fosse adesso.
M'ero cosparsa d'assenzio i capezzoli,
e me ne stavo ben seduta al sole
poggiata al muro della colombaia.
Voi eravate col padrone a Mantova
(eh, la testa mi serve ancora bene!)
ma, dicevo, quand'ella assaporò
l'amaro dell'assenzio sul capezzolo,
bisognava veder la pazzerella
quante bizze mi fece con la poppa!
Fu in quel momento che la colombaia
si scosse tutta, come a dirmi: "Muoviti!";
ma non fu necessario, v'assicuro,
che alcuno m'imponesse di scappare.
Da allora son passati undici anni,
perché lei si reggeva già da sola,
anzi, che dico, Croce del Signore,
correva e zampettava dappertutto...
Infatti il giorno prima, nel cadere,
s'era fatta un bel bozzo sulla fronte
e mio marito (che Dio l'abbia in pace:
quello era veramente un cuorcontento!)
nel sollevarla e mettersela in collo,
"Che fai - disse - mi caschi ventre a terra?
Va là che quando avrai messo giudizio,
ti piacerà di cadere all'indietro,
vero, Giulietta?"... E quella birichina,
perbacco, smise di piagnucolare
e disse: "Sì". Ma guarda un po', alle volte,
come uno scherzo ti viene a pennello!
Per me, dovessi campare mill'anni,
non potrò mai scordare quella scena...
"Vero, Giulietta?" - le domanda lui
e quella pazzerella, all'improvviso,
smette di piangere e risponde: "Sì"!

MONNA CAPULETI - Sì, però basta, adesso; fa' silenzio.

NUTRICE - Sì, signora, sto zitta ed in silenzio...
E tuttavia mi viene ancor da ridere
se ripenso al momento in cui, di colpo,
smise di piangere per dire: "Sì";
e aveva in fronte, v'assicuro, un bozzo
grosso come un fagiolo di galletto:
un brutto colpo, e lei piangeva forte.
"Come! Mi cadi con la pancia in giù?
- fa mia marito - Quando sarai grande
saprai bene cadere pancia in su,
vero, Giulietta?". E quella, all'improvviso,
si calma tutta e gli risponde: "Sì".

GIULIETTA - Bene. Però, ti prego, ora, Nutrice,
di calmarti anche tu.

NUTRICE - Basta, ho finito.
Giulietta, che il Signore t'abbia in grazia,
tu sei stata la bimba più graziosa
ch'io abbia avuta attaccata alle poppe.
Vivessi tanto da vederti sposa,
non avrei più alcun altro desiderio.

MONNA CAPULETI - Venivo appunto a toccar, per la Vergine,
questo argomento: come maritarla.
Giulietta, figlia mia, dimmi, che pensi
riguardo al fatto di prender marito?

GIULIETTA - È un onore che io nemmeno sogno.

NUTRICE - Ecco, appunto, un onore, hai detto bene!
Non fossi stata solo la tua balia,
direi che insieme al latte della poppa
hai succhiato da me pure il giudizio.

MONNA CAPULETI - Eppure è giunto il tempo, figlia mia,
che pensi a maritarti. Qui a Verona,
ragazze d'ottima reputazione
più giovani di te, sono già madri;
io stessa, all'età tua, se ben ricordo,
ero tua madre già, quando tu, invece,
pensi d'essere ancora una bambina.
A farla breve: c'è il nobile Paride
che ci ha testé richiesta la tua mano.

NUTRICE - Che uomo, quello là, ragazza mia!
Uno che tutto il mondo... così bello,
che pare un figurino!

MONNA CAPULETI - Un più bel fiore
non produce l'estate di Verona.

NUTRICE - È vero: un fiore d'uomo, proprio un fiore!

MONNA CAPULETI - (A Giulietta)
Che dici: senti di poterlo amare
quel gentiluomo? Lo vedrai stanotte,
alla festa, da noi: cerca di leggere

quel ch'è scritto nel libro del suo volto,
e scopri in esso tutta la delizia
che la bellezza ha scritto di sua mano;
osserva come tutti i lineamenti
sono armonicamente coniugati
sì che ciascuno presta gioia all'altro;
e tutto quel che in questo bel volume
ti rimanesse oscuro, puoi trovarlo
negli occhi suoi, come una "nota a margine".
Questo prezioso volume d'amore,
questo amatore ancora non legato,
ha sol bisogno d'una legatura
per diventare ancora più leggiadro.
Il pesce vive in mare; il mare è bello;
ed è assai merito del bello esterno
far risaltare il bello che sta dentro.
Il libro che contiene un'aurea storia
e la tien chiusa con fermagli d'oro
rende partecipe del suo splendore
più d'un occhio. Se tu lo farai tuo,
sarai partecipe d'un tal possesso,
senza, per ciò, diminuir te stessa.

NUTRICE - Diminuir se stessa? Ma che dite!
Ingrossarsi, piuttosto: accanto agli uomini
le femmine diventano più grosse!

MONNA CAPULETI - Insomma, figlia mia, a parlar corto:
ti senti, o no, di poter corrispondere
sinceramente all'amore di Paride?

GIULIETTA - Vedrò di farmelo piacere, madre,
se vedere può suscitar piacere;
ma non spingerò l'occhio
più in là di quanto il vostro buon consenso
non dia loro il permesso di volare.

Entra un SERVO

SERVO - Signora, sono giunti gli invitati,
il desinare è in tavola,
chiedon di voi e di madamigella,
reclamata a gran voce è la Nutrice
dalla dispensa. Noi siamo agli estremi.
Io debbo ritornar di là a servire.
Vi scongiuro, seguitemi. Ma presto!

(Esce il Servo)

MONNA CAPULETI - Ti seguiamo. Giulietta, il Conte aspetta.

NUTRICE - Va', figliola, e fa' in modo che s'aggiungano
felici notti ai tuoi felici giorni.

(Escono)

SCENA IV - Verona, una strada

Entrano ROMEO, MERCUZIO, BENVOLIO, con altri cinque o sei, tutti mascherati, alcuni con torce. ROMEO è mascherato da pellegrino

ROMEO - Allora, s'ha da far questo discorso
di scuse, o s'entra senza chieder scusa?

BENVOLIO - Certe prolissità son fuori moda.
Non c'è nessun Cupido in mezzo a noi,
con sciarpa a mo' di benda agli occhi ed arco
di legno tinto alla maniera tartara
da mettere paura alle signore
come se fosse uno spaventapasseri;
né noi si vuole entrare recitando
timidamente, col suggeritore,
un prologo mandato appena a mente.
Usino pure, a giudicar di noi,
la misura che farà lor più comodo;
noi ci limiteremo a misurare
quattro passi di danza, e ce ne andiamo.

ROMEO - A me date una torcia, niente danze:
non son fatto per simili volteggi.
Col buio dentro, porto almeno un lume.

MERCUZIO - No, no, devi ballare, caro mio.

ROMEO - Ah, questo no, credetemi, non posso.
Voi avete scarpini adatti al ballo
dotati di solette leggerissime;
io porto invece un'anima di piombo
che mi tiene così inchiodato a terra,
da impedirmi di fare alcuna mossa.

MERCUZIO - Dal momento che sei innamorato,
fatti prestare l'ali da Cupido,
e vola sopra la comune altezza.

ROMEO - Le ferite prodotte dal suo strale
sono troppo impietose per librarmi
a volo sulle sue penne leggere;
e mi trovo sì stretto dai suoi lacci,
da non poter levarmi un solo palmo
al disopra del mio male d'amore:
e affondo sotto il suo grave fardello.

MERCUZIO - Però per annegarti nell'amore
dovresti caricarlo del tuo peso:
un po' troppo, direi,
per una coserella tanto tenera.

ROMEO - Che! L'amore una coserella tenera?
Più ruvida, più aspra, più violenta
non ce n'è alcuna... E punge come spina.

MERCUZIO - Se l'amore è sì ruvido con te
siilo tu altrettanto con l'amore,
e rendigli puntura per puntura:
alla fine vedrai che l'avrai vinta...
Basta, datemi adesso un qualche astuccio
dove poter nascondere la faccia.
(Mettendosi la maschera)
Ecco: una maschera su un'altra maschera.
Che importa adesso se un occhio indiscreto
scopre che sono brutto? Sul mio viso
c'è questo brutto ceffo ringrugnito
che arrossirà per me.

BENVOLIO - Su, bussa ed entra;
e appena dentro, forza con le gambe.

ROMEO - Allora me la date questa torcia?
Lascio agli spensierati gingilloni
di titillare coi loro calcagni
le insensibili stuoie; quanto a me,
mi sto col vecchio proverbio del nonno:
"Reggo il moccolo e me ne sto a guardare;
"la selvaggina mai fu così bella,
"ma la caccia per me è ormai finita".

MERCUZIO - Toh, sentitelo! "Il sorcio s'è infognato",
come direbbe il capo degli sbirri.
Ma se pure ti fossi impantanato
fino agli orecchi, penseremo noi
a trarti fuori da cotesta melma,
o, a dirla con rispetto, dall'amore.
Andiamo, decidiamoci, se no,
queste torce faranno luce al giorno.

ROMEO - Esagerato!

MERCUZIO - Esagerato un corno!
Dico che a stare a traccheggiar qui fuori,
noi sprechiamo le luci delle fiaccole
come a tenerle accese in pieno giorno.
Cerca di prendere nel senso buono
quel che diciamo, ché il pensare nostro
ha fatto stanza almeno cinque volte
nella buona intenzione di noi tutti,
prima di star per una volta sola
in ciascuno dei nostri cinque sensi.

ROMEO - L'intenzione d'andare a questa festa
è buona, ma non è da senno andarci.

MERCUZIO - E perché mai?

ROMEO - Stanotte ho fatto un sogno.

MERCUZIO - Anch'io.

ROMEO - Davvero. E che cosa hai sognato?

MERCUZIO - Che quei che sognano spesso soggiacciono...

ROMEO - Che soggiacciono! Giacciono. A dormire.
Sognando cose vere.

MERCUZIO - Ah, ho capito:
da te c'è stata la regina Mab.

ROMEO - Regina Mab? Chi diavolo è costei?

MERCUZIO - La mammana del regno delle fate;
e si presenta sempre in una forma
non più grossa d'una pietruzza d'agata
al dito indice di un assessore;
viaggia su un equipaggio trainato
da una muta di piccoli esserini,
e si posa sul naso di chi dorme;
i raggi delle ruote di quel traino
sono formati da zampe di ragno,
il mantice dall'ali di locuste,
le briglie da sottili filamenti
d'esili ragnatele; i pettorali
dai rugiadosi raggi della luna;
la frusta ha il manico d'osso di grillo
e la sferza d'un filo sottilissimo;
il cocchiere, a cassetta, è un moscerino
tutto grigio-vestito, non più grande
della metà d'uno di quei vermetti
che si tolgono fuori con lo spillo
dal dito d'una pigra fanciulletta;
il cocchio è un guscio cavo di nocciola
lavorato così da uno scoiattolo
falegname o da qualche vecchio tarlo;
son essi i carrozzieri delle fate
l'uno e l'altro, da tempo immemorabile.
In questo arnese, Mab va cavalcando,
la notte, pei cervelli degli amanti,
e allora questi sognano d'amore;
o per le rotule dei cortigiani

che sognan subito salamelecchi;
o sulle dita d'uomini di legge
che sognan subito laute parcelle;
talvolta sulle labbra delle dame,
e queste sognano d'esser baciate,
e spesso sulle loro labbra Mab
irritata dai loro fiati guasti
pei troppi dolci, lascia delle pustole.
Talvolta anche galoppa su pel naso
d'un sollecitatore di favori
a pagamento, e quello, allora, in sogno,
sente l'odore d'una petizione;
talvolta va a solleticare il naso
col crine d'un porcello della decima,
ad un prevosto e quello allora sogna
un altro benefizio parrocchiale.
Talora passa con il suo equipaggio
sul collo d'un soldato militare,
e allora questi sogna a tutto spiano
di tagliar gargarozzi di nemici,
brecce, imboscate, lame di Toledo,
brindisi con bicchieri senza fondo;
poi, d'improvviso, gli rulla all'orecchio
il tamburo e lui salta su di botto,
si sveglia, e dopo avere smoccolato
per la paura un paio di bestemmie,
se ne ricade giù, morto di sonno.
È quella stessa Mab che nella notte
intreccia le criniere dei cavalli
e fa dei loro crini sbarruffati,
unti e bisunti, dei magici nodi
che a districarli portano disgrazia.
È lei la maga che quando le vergini
giacciono a letto con la pancia all'aria,
le preme perché imparino a "portare"
e le fa donne di "buon portamento".
È lei che...

ROMEO - Basta, via, Mercuzio, basta!
Stai parlando del nulla!

MERCUZIO - Sì, di sogni,
che sono i figli d'un cervello pigro,
fatti solo di vana fantasia,
che sono inconsistenti come l'aria,
più incostanti del vento, che ora scherza
col grembo gelido del settentrione,
ed ora, all'improvviso, in tutta furia,
se ne va via sbuffando e volge il volto
alle stillanti rugiade del sud.

BENVOLIO - Ho paura che il sogno di cui parli
ci stia soffiando fuori di noi stessi:
perché la cena dev'esser finita,
e noi arriveremo troppo tardi.

ROMEO - Temo invece che sarà troppo presto;
perché il mio spirito mi fa presago
di eventi ancor sospesi nelle stelle
che avranno il lor funesto appuntamento
in questa festa, e segneranno il termine
d'una vita spregiata, com'è quella
ch'io chiudo in petto, e che un crudel destino
sembra aver condannato fin da ora
ad immatura ed impietosa morte.
Ma Colui che governa la mia rotta
da nocchiero, diriga la mia vela.
Avanti, allegramente!

BENVOLIO - Via il tamburo!

(Escono)

SCENA V - Verona, la casa dei Capuleti

Musici che attendono
Entrano alcuni SERVI di mensa

1° SERVO - Dov'è andato Pignatta?
Che sta a fare, che non ci dà una mano
a sparecchiar la tavola?... Già, lui,
sostituire un piatto... Non sia mai!
Lui grattare un tagliere... Non sia mai!

2° SERVO - Quando la pulizia deve risiedere
nelle mani di una persona o due
che per giunta non se le son lavate,
è una schifezza!

1° SERVO - Via quegli sgabelli!
Quella credenza spostala di là.
Bada all'argenteria...
E tu, sii bravo, mettimi da parte
un pezzettino di quel marzapane;
e, se non ti dispiace, di' al portiere
che mandi su Susanna Mola e Nelly.
Ehi, Antonio, Pignatta!

3° SERVO - Eccoci pronti.

1° SERVO - Pignatta, in sala chiedono di te,
tutti ti cercano, tutti ti vogliono,
sei la persona più desiderata!

3° SERVO - Non si può star di qua e di là ad un tempo.

2° SERVO - Fate cuore, ragazzi! State allegri!
Chi campa più di tutti, piglia tutto!

(Si ritirano nel fondo)

Entrano, da una parte, il CAPULETO, con GIULIETTA, TEBALDO e la NUTRICE, e si fanno incontro agli invitati, che entrano dalla parte opposta

CAPULETO - Signori, benvenuti in casa mia!
Le dame senza calli ai lor piedini
faranno un giro di danza con noi.
Ah, ah, mie belle dame, e chi di voi
si potrà rifiutare di ballare?
Giuro che quella che fa la ritrosa
qualche calletto ai piedi deve averlo.
Ci ho colto bene, vero?... Avanti, avanti!
Benvenuti! Ho conosciuto anch'io
il tempo quando nascondevo il viso
dietro lo schermo d'una mascherina,
e sussurravo a qualche bella dama,
all'orecchio, galanti paroline...
Ma quel tempo è lontano, strapassato.
Voi siete i benvenuti, miei signori!
Andiamo, suonatori, un po' di musica.

(Musica e danza)

Sala, sala, signori! Fate largo!
E voi, ragazze, via coi vostri passi!

(Ai servi)
Più luce, giovanotti!... Via quei tavoli,
e andate a spegnere il fuoco al camino,
che l'aria è divenuta troppo calda.
Ma bravi, questa festa improvvisata
sta riuscendo bene... Vieni, siedi,
siediti qua, cugino Capuleti;
per me e per te la stagione del ballo
è passata da un pezzo. Quanto tempo
da che ci siamo ritrovati insieme
l'ultima volta ad una mascherata?

SECONDO CAPULETI - Madonna Santa! Saranno trent'anni.

CAPULETO - Che dici! No, non mi pare poi tanto!
Dal giorno delle nozze di Lucenzio.
Alta o bassa che venga Pentecoste
(in quel giorno ci siamo mascherati)
saranno tutt'al più venticinqu'anni.

SECONDO CAPULETI - Di più, di più: ne ha già di più suo figlio,
che sta sui trenta.

CAPULETO - Che mi vai contando!
Se si trovava ancor sotto tutela
due anni fa...

ROMEO - (A un servo, indicando Giulietta)
Chi è quella damina
laggiù, che con il tocco di sua mano
fa ricca quella del suo cavaliere?

SERVO - Mi dispiace, signore, non lo so.

(Si allontana il servo)

ROMEO - Oh, ch'ella insegna perfino alle torce
come splendere di più viva luce!
Par che sul buio volto della notte
ella brilli come una gemma rara
pendente dall'orecchio d'una Etiope.
Bellezza troppo ricca per usarne,
troppo cara e preziosa per la terra!
Ella spicca fra queste sue compagne
come spicca una nivea colomba
in mezzo ad uno stormo di cornacchie.
Finito questo ballo,
osserverò dove s'andrà a posare
e, toccando la sua, farò beata
questa mia rozza mano...
Ha mai amato il mio cuore finora?...
Se dice sì, occhi miei, sbugiardatelo,
perch'io non ho mai visto
vera beltà prima di questa notte.

(Romeo, pur parlando a se stesso, ha parlato a voce alta e Tebaldo, passandogli vicino, l'ha sentito)

TEBALDO - Alla voce, costui pare un Montecchi.
Non mi sbaglio.
(Ad un servo)
Ragazzo, la mia spada!
Come! Il furfante ardisce venir qui,
coperto da una maschera grottesca,
a farsi beffa della nostra festa?
Ebbene, per l'amore del mio sangue
e per l'onore della mia famiglia,
non credo di commettere peccato
a stenderlo qui morto, con un colpo.

CAPULETO - Che c'è che t'agita tanto, nipote?

TEBALDO - Questi è un Montecchi, zio, nostro nemico;
un furfante, venuto qui a dispetto,
per beffarsi di questa nostra festa.

CAPULETO - Il giovane Romeo?

TEBALDO - Sì, proprio lui,
quel furfante del giovane Romeo.

CAPULETO - Calma, nipote mio. Lascialo stare.
Si conduce da vero gentiluomo;
e, per vero, Verona vanta in lui
un giovane virtuoso e di bei modi;
né io permetterei che in casa mia,
per tutto l'oro di questa città,
gli sia recata alcuna umiliazione.
Perciò sta' calmo. Non te ne occupare.
È un ordine, e se tu vuoi rispettarlo,
fa' buona cera, smetti l'aria truce,
che non s'addice proprio ad una festa.

TEBALDO - S'addice, invece, eccome,
quando tra gli ospiti c'è un tal furfante!
Non lo sopporto.

CAPULETO - E devi sopportarlo,
invece, giovanotto! Devi, ho detto!
Chi è il padrone, qui, sei tu o io?
Non lo sopporta, lui!... Ti guardi Iddio
dal creare una rissa tra i miei ospiti!
Vuole alzare la cresta, come il gallo!
Vuol far, come si dice, la bravata!

TEBALDO - Ma, zio, è una vergogna!

CAPULETO - Ovvia! Ovvia!
Ragazzo prepotente! E che! Scherziamo?
È uno scherzo che può costarti caro.
So quel che dico: tu vuoi contrariarmi.
Hai scelto proprio il momento, perdio!

(Ai danzatori)
Bene, bravi figlioli!...

(A Tebaldo)
Un insolente,
ecco che cosa sei. Va' e sta' buono,
altrimenti...
(Ai servi)
Più luce, fate luce...
(A Tebaldo)
E vergognati: e se non fai giudizio,
bada che son qua io...

(Ai danzatori)
Su, su, ragazzi,
qui ci vuole un po' più d'animazione!

TEBALDO - Questa pazienza imposta con la forza,
che si scontra con l'ira più sfrenata,
mi fa fremere tutto. Me ne vado.
Però questa sfacciata intromissione
che par che attiri qui tanta dolcezza
si muterà in amarissimo fiele!

(Esce)

ROMEO - (A Giulietta, prendendole la mano)
Se con indegna mano
profano questa tua santa reliquia
(è il peccato di tutti i cuori pii),
queste mie labbra, piene di rossore,
al pari di contriti pellegrini,
son pronte a render morbido quel tocco
con un tenero bacio.

GIULIETTA - Pellegrino,
alla tua mano tu fai troppo torto,
ché nel gesto gentile essa ha mostrato
la buona devozione che si deve.
Anche i santi hanno mani, e i pellegrini
le possono toccare, e palma a palma
è il modo di baciar dei pii palmieri.

ROMEO - Santi e palmieri non han dunque labbra?

GIULIETTA - Sì, pellegrino, ma quelle son labbra
ch'essi debbono usar per la preghiera.

ROMEO - E allora, cara santa, che le labbra
facciano anch'esse quel che fan le mani:
esse sono in preghiera innanzi a te,
ascoltale, se non vuoi che la fede
volga in disperazione.

GIULIETTA - I santi, pur se accolgono
i voti di chi prega, non si muovono.

ROMEO - E allora non ti muovere
fin ch'io raccolga dalle labbra tue
l'accoglimento della mia preghiera.

(La bacia)

Ecco, dalle tue labbra ora le mie
purgate son così del lor peccato.

GIULIETTA - Ma allora sulle mie resta il peccato
di cui si son purgate quelle tue!

ROMEO - O colpa dolcemente rinfacciata!
Il mio peccato succhiato da te!
E rendimelo, allora, il mio peccato.

(La bacia ancora)

GIULIETTA - Sai baciare nel più perfetto stile.

NUTRICE - (È stata ad osservare da lontano, poi s'avvicina)
Tua madre vuol parlarti, padroncina.

ROMEO - Chi è sua madre?

NUTRICE - Ebbene, giovanotto,
è la padrona qui di questa casa;
una buona signora, saggia e onesta;
e la figliola, quella damigella
con cui discorrevate poco fa,
gliel'ho allattata ed allevata io.
E quell'uomo che saprà fare tanto
da prenderla per moglie, giuraddio,
ne avrà dei bei sonanti quattrinelli!

(Si allontana con Giulietta)

ROMEO - (Tra sé)
Ella è una Capuleti!... Ah, duro prezzo
ch'io sarò tratto a pagare per questo!
Do in pegno la mia vita a una nemica!

BENVOLIO - Usciamo, adesso, via!
Il meglio della festa l'abbiam visto.

ROMEO - Ho paura che sia proprio così.
Più stiamo e più ne va della mia pace.

CAPULETO - No, no, signori miei, non ve ne andate!
Abbiamo preparato uno spuntino
per stare ancora un poco in allegria...
Volete proprio andare?... Grazie a tutti,
allora, grazie, nobili signori,
e buona notte.
(Ai servi)
Recate altre torce!
Allora andiamo, si va tutti a letto.
Oh, perbacco, s'è fatto molto tardi!
Me ne vado a dormire dritto dritto.

(Escono tutti tranne GIULIETTA e la NUTRICE)

GIULIETTA - (Indicando uno degli ospiti che sta uscendo)
Vien qua, nutrice. Chi è quel signore?

NUTRICE - È il figlio erede del vecchio Tiberio.

GIULIETTA - E l'altro che sta uscendo dalla porta?

NUTRICE - Mi sembra... sì, è il giovane Petruccio.

GIULIETTA - E quell'altro che esce dietro a lui,
e non ha mai ballato?

NUTRICE - Non lo so.

GIULIETTA - Va' a domandargli il nome. Se è sposato,
la tomba sarà il mio letto di nozze.

NUTRICE - Il suo nome è Romeo, ed è un Montecchi,
unico figlio del più gran nemico
di tua famiglia.

GIULIETTA - O unico mio amore,
scaturito dall'unico mio odio!
O sconosciuto, troppo presto visto
e troppo tardi, ahimè, riconosciuto
per quel che eri. O amore prodigioso,
ch'io debba amare un odiato nemico!

NUTRICE - Che è? Che vai dicendo?

GIULIETTA - Nulla, nulla.
Son versi da me appresi poco fa
da uno che ballava insieme a me.

VOCE DI DENTRO - Giulietta!

NUTRICE - Ecco, veniamo. Su, Giulietta.
A nanna. Sono andati tutti via.

(Escono)

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