Mary Wigman, la madre dell’espressionismo tedesco

Definita dalla storica Laure Guilbert l’incarnazione del “modernismo reazionario” nella danza, Mary Wigman assieme al suo maestro Rudolf von Laban, esplorò nuovi percorsi artistici con l’ambizione utopica di andare contro le degenerazioni della modernità. I due portarono nella danza moderna il tentativo di rinascita spirituale nel mondo moderno trasferendo nel corpo del danzatore il senso del tempio sacro: il corpo come centro del mondo.

Nata ad Hannover nel 1886, si avvicina al mondo della danza soltanto molto tardi all’età di 24 anni entrando a far parte della scuola di Dalcroze dove però resta appena due anni prima di migrare verso un animo più affine al suo, quello di Rudolf Laban suo vero maestro. Da Laban la Wigman apprende un’infinità di nozioni e caratterizzazioni che saranno poi fondamentali per lo sviluppo della sua impronta creativa e interpretativa unica nel suo genere e che la consacrerà come madre dell’espressionismo tedesco nella danza.

Mary Wigman

Tra il 1913 e il 1919 la Wigman fa un’ intensa ricerca sperimentale tra Monaco e Roma, e Zurigo e Monte Verità (sempre in Svizzera) nel tentativo di ridare al mondo, almeno nell’arte della danza, l’incanto perduto.

Partecipò con passione agli atelier di von Laban ed insieme crearono delle “comunità di lavoro festivo”, come essi le definirono che non si occupavano solo della danza ma, sulla scia dell’esperienza di Ascona (del Monte Verità) prendevano in esame un grosso bagaglio di teorie e di pratiche dove trovavano posto Carl Gustav Jung (psichiatra, psicoanalista, antropologo, filosofo e accademico svizzero) e Rudolf Otto (teologo e storico delle religioni), il comunitarismo di Ferdinand Tönnies (sociologo tedesco), la pedagogia di Martin Luserke, il canto corale, i Wandervogel, l’amore libero, l’antroposofia di Rudolf Steiner che concepisce la realtà universale come una manifestazione spirituale in continua evoluzione.

Lontana da quella che era la finalità ballettistica, ossia raccontare storie, e allo stesso tempo da quella che sarà tipica della modern dance americana, ovvero l’interpretazione di disagi umani e tematiche sociali, la Wigman sostiene invece la spersonalizzazione della danza e dell’interprete che si eleva così a veicolo universale di una realtà mai individuale, ma universale.

Il danzatore ha una missione: svelare le possibilità, i diversi cammini di un’umanità intera e mai l’intimità e la soggettività dell’interprete. A questo scopo si prestano perfettamente le maschera da cui resta sempre più affascinata: annullano e nascondo il volto che è poi la parte del corpo più caratterizzata e riconoscibile.

Nel rapporto con la musica, anche questo estremo e nuovo, Mary Wigman esaspera la sua rottura con la tradizione forzando a tal punto l’indipendenza tra musica e danza da arrivare a far sì che sia la musica a seguire le sue esigenze espressive e non il contrario: rare intrusioni di percussioni caratterizzano i suoi pezzi e accenti e rumori improvvisi pongono in risalto i movimenti ingabbiati in una forte tensione sempre crescente.

Mary Wigman

La Wigman mise a punto un sistema di insegnamento basato sulla respirazione e sul principio della “tensione/distensione” (Anspannung/Abspannung), quindi non molto dissimile dal principio fondante della tecnica di Martha Graham: contraction/release.

Il suo debutto come Solista si ebbe nel 1914 con la prima versione della danza della strega (Hexentanz), assolo che riproporrà in seguito in diverse versioni e che diverrà il suo emblema. In questo assolo – danzato interamente da seduta – la Wigman aveva il volto coperto da una maschera, da lei usata con l’intento di cancellare l’individualità di chi danza ed esaltare così la universalità dell’essere umano.

Negli anni ’20 Mary Wigman inventò la Tanz-drama, la danza di gruppo, un “lavoro coreografico incentrato sulle dinamiche corporali e sulle energie spaziali”. La Wigman tentò di “riconciliare il principio di autorità con quello dell’autonomia, il peso della comunità e il primato dell’individuo”.

Nacquero così le sue opere: “Szenen aus einem Tanz-drama”, “Totentanz”, “Totenmal” che però andarono progressivamente spostandosi verso una sorta di autoritarismo, verso il “principio del Capo” visto come maestro in grado di modificare “la massa”, infondergli un’anima. Nel suo lavoro “Totenmal” (Monumento ai morti) fu la stessa Wigman a svolgere questo ruolo di Capo, incarnazione della guida ideale in grado di trasformare la massa amorfa in una comunità organica spirituale che nella danza diventa “partecipazione collettiva attiva” dove le decine di danzanti nei ruoli di soldati, madri e ragazze non sono più individui ma “tipi”.

Con l’ascesa al governo del Nazionalsocialismo di Adolf Hitler, von Laban, nonostante avesse avuto rapporti con la socialdemocrazia durante il periodo di Weimar, fu accolto nella Camera del Teatro del Reich, ma la sua partecipazione agli obiettivi del regime rimase tiepida.

La Wigman invece fu più vicina a quella corrente culturale che nell’ideologia nazionalsocialista situava la danza moderna nei filoni di ricerca dei una identità politica “nazionale” ed ebbe un incarico regionale (a Dresda) nella Lega nazional-socialista degli insegnanti.

Scrive la storica Guilbert: “Ai suoi occhi, la danza moderna era lo strumento tramite il quale la cultura tedesca poteva riappropriarsi di un’identità a lei esclusiva fondata su valori di solidarietà comunitaria, di fede in una natura cosmica e di adesione al genio artistico.

Mary Wigman anziana

Tra gli artisti più noti che erano vicini all’ambiente della danza e che scelsero il nazismo possiamo ricordare l’adesione del musicista Carl Orff, lo scultore Georg Kolbe e la regista Leni Riefensthal che era stata allieva della Wigman a Dresda.

Non si può negare che sostenne il regime nazista fino alla fine, ma dopo la guerra fabbricò una storia riguardo a come la sua danza sia stata bandita come ‘arte degenerata’, una costruzione che proseguì senza contestazione fino alla sua morte. Nelle memorie divenne la vittima, non il carnefice. Ciononostante, è pur vero che la sua libertà di espressione durante il Terzo Reich è stata costretta entro certi limiti e dunque possiamo pensare al periodo post-hitleriano come ad un passaggio di rimeditazione prima dell’avvento del nuovo.

Nel 1947 riaprì la sua scuola a Lipsia e riuscì a rappresentare ancora suoi lavori, vecchi e nuovi ricevendo anche alcuni premi. Tra le sue ultime composizioni ci fu la “Danza di Brunilde”, una sorta di testamento autobiografico con al centro l’amore tradito. Nel 1967 riuscì finalmente a trasferire la sua scuola a Berlino. Muore il 18 settembre 1973 a Berlino Ovest all’età di 87 anni.

Lontana ovviamente dall’estetica della bellezza e leggerezza del balletto classico – romantico, ma anche dall’armonia della free dance della Duncan, la Wigman dà alla danza una forma nuova che viene da dentro. Il bello come estetica non ha alcuna importanza per lei che fa uso del corpo unicamente per esplicare quanto viene dall’interno. L’atmosfera inquietante sottolineata dalle forme del corpo spesso in pose contorte, indicò il nesso tra il lavoro della Wigman e quello della pittura espressionista tedesca dell’epoca. La Wigman come come la Duncan e la St. Denis mostra che l’estetica verticale ed eterea del balletto classico non era l’unica possibilità di espressione nel mondo della danza intesa come arte. La Wigman mostra anche certi temi assai scomodi come la morte e gli impulsi selvaggi dell’uomo possano anch’essi essere materia per la danza, vista come l’espressione intima dei sentimenti di chi la esegue.

Francesca Camponero

[In alto, Mary Wigman con alcune sue allieve]

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