Confessioni, uno splendido dono di Vittoria Ottolenghi al grande Rudy

Oggi, mentre tutto il mondo della danza aspetta le 21,25 per vedere lo spettacolo “Danza con me” di Roberto Bolle che per il terzo anno consecutivo inaugura il prime time del nuovo anno di Rai 1, io torno indietro col tempo avendo fra le mani il bellissimo libro che Vittoria Ottolenghi dedicò a Rudolf Nureyev intitolato “Confessioni, una conversazione lunga trent’anni”, Edizioni Pantheon, uscito nel 1995.

Credo che non ci sia nessuno che abbia descritto Rudolf meglio della Signora Ottolenghi, che oltre ad essere stata un’impareggiabile critico di danza, è anche stata una delle poche persone che Nureyev considerava amiche. Il valore di questa amicizia non è mai stato sottovalutato dalla Ottolenghi, che attraverso questi scritti riporta alla luce la vera essenza di Rudolf, il grande ballerino, il divo per eccellenza, certo, ma anche l’uomo fragile ed insicuro che più delle volte si ritrovava solo per il suo carattere “non facile”.

Vittoria Ottolenghi e Rudolf Nureyev

La Ottolenghi voleva bene a Rudolf, un bene sincero, perchè di lui ha capito tutto quello che gli altri non vedevano e per questo lo ha sempre giustificato. “Nureyev non apparteneva alla borghesia e neanche al vero proletariato, ma al regno della povertà assoluta e della sottoccupazione. In pochi anni, per la sola forza del suo ingegno, passò dalla periferia asiatica, la Bashkiria, alle ostriche di Parigi. Anche per questo egli non era “maleducato”, ma semplicemente”non-educato”. Queste parole la dicono lunga su tutto il mondo che stava dietro alla facciata Nureyev che il pubblico adorante vedeva ed applaudiva.

Luigi Pignotti e Rudolf Nureyev

Rudy si comportava in un certo modo per inadeguatezza e la sua rivalsa con il mondo è stata quella di ottenere un successo tale che è riuscito a riscattarlo da un passato di miseria e ristrettezze che non riusciva a dimenticare e soprattutto a togliersi di dosso.

“Mia madre diceva a me ed alle mie sorelle di stare fermi, di giocare poco, così ci veniva meno fame, visto che non c’era da mangiare. Allora noi, che non avevamo giocattoli, facevamo come lei voleva ed ascoltavamo la radio, che invece c’era, dove trasmettevano tanta bella musica. La musica era come una ghiottoneria, un gelato o una fetta di torta. Per noi quelle note che arrivavano da lontano erano il sogno di un futuro migliore e l’ipotesi, almeno, della bellezza e della gioia” così confessò una volta Nureyev a Vittoria nel suo studio.

Con Vittoria avrebbe voluto consigliarsi anche per le scelte di acquisto di preziosi, ma lei lo rimandava ad un’altra amica comune, Gloria Venturi, che invece di antiquariato ne sapeva di più. Le case di Rudolf (che erano tante) erano infatti piene di oggetti antichi che acquistava spesso con leggerezza sperperando il suo patrimonio. Ma il bello era la sua passione, si sa, in tutto e per tutto.

Nureyev durante l’ultimo periodo di vita

Con la Ottolenghi Nureyev rimase in contatto anche durante gli anni della sua malattia. La voleva sempre accanto a lui, ne aveva bisogno come di una sorella (o forse una mamma), ma per la giornalista non era facile affrontare il decadimento di quell’amico tanto famoso quanto fragile e spesso rifiutava i suoi inviti. Le faceva troppo male al cuore sapere che non esisteva una soluzione per strapparlo a morte certa. “Lui per altro non alludeva mai alla sua malattia, – scrive la Ottolenghi – c’è stata solo una volta che pur senza parlare direttamente del suo male, ha accusato un fortissimo dolore alla testa: teneva stretta la mia mano con la sinistra e con la destra quella di Luigi Pignotti, il suo agente. Eravamo a Venezia, nel 1985. Gli era appena stata comunicata la diagnosi definitiva”.

Ma il libro non parla solo dei momenti tristi della vita di Rudy; di lui ci regala anche l’immagine di un uomo vivace ed attento con tanta voglia di conoscenza, quella che gli era mancata nell’infanzia e nell’adolescenza. Aveva un desiderio famelico di letteratura, divorava i libri, racconta la Ottolenghi, ogni volta che ne prendeva uno non parlava d’altro per giorni e giorni. Pare che il libro che gli piacque di più fu l’autobiografia di Goldoni. Del grande commediografo gli piaceva il tono asciutto ed ironico, il suo errare, girovagare, un asciutto parallelo de Le Compagnon errant firmato Bejart che lo ha visto proteso tutta la vita verso l’ipotesi, e non la certezza, di un arrivo in porto.

Consiglio a tutti di leggere questo libro, un grande testamento d’amore.

Francesca Camponero

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